In quel tempo, Gesù (nel tempio) diceva alla folla
mentre insegnava: «Guardatevi dagli scribi, che
amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti
nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe
e i primi posti nei banchetti.
Divorano le case delle vedove e ostentano di fare lunghe
preghiere; essi riceveranno una condanna più grave».
E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla
gettava monete nel tesoro.
E tanti ricchi ne gettavano molte.
Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino.
Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico:
questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà,
vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Parola del Signore.
La protagonista della liturgia di oggi è una vedova, anzi due.
Se la vedovanza già rappresenta uno stato di grande dolore,
di lacerazione interiore, di frantumazione di affetti, restare vedove,
al tempo di Gesù, era una vera e propria tragedia.
Senza servizi sociali, senza appoggio dalla famiglia, spesso la vedova si
vedeva costretta, per vivere, a mendicare o, peggio, a prostituirsi.
La condizione della vedova, perciò, era la peggiore che si potesse immaginare; sola,
senza sussistenza economica, disprezzata perché mendicante o prostituta.
E invece sono proprio le vedove, le ultime della società,
a essere al centro dell’attenzione della parola di Dio di oggi.
La prima vedova si trova a Zarepta di Sidone, fuori dal territorio d’Israele.
Elia, il grande profeta, le chiede accoglienza alle porte della città.
Questa povera donna, senza mezzi di sussistenza, accetta di ospitare questo
sconosciuto straniero, condividendo l’ultima porzione di cibo che possiede.
Questo immenso segno di generosità cambierà la sua vita;
l’olio nell’orcio e la farina nella madia non verranno mai più a mancare.
Così la vedova del vangelo getta nel tesoro del Tempio qualche euro,
mentre i notabili della città e i devoti si spintonano per far notare le somme
considerevoli che versano nelle casse del tempio appena ricostruito.
Gesù loda la generosità di questa donna che ha dato il suo necessario come offerta a Dio,
e ignora le generose offerte pubblicate a titoli cubitali del miliardario di turno.
Ci sono momenti nella vita in cui perdiamo tutto; salute, lavoro, una persona cara
(non necessariamente perché muore), voglia di vivere.
Momenti faticosi, terribili, in cui abbiamo l’impressione di non sopravvivere.
Come la vedova di Elia, trasciniamo un passo dopo l’altro, tenuti in vita da qualche affetto
(il figlio per la vedova), ma rassegnati a veder consumare ogni forza, ogni energia.
Quante persone in questo stato ho conosciuto nella mia vita!
Quanti amici pieni di forza e di ironia si sono poi sfracellati contro il muro della vita.
Le responsabilità, in fondo, non contano, non servono; quando si è bastonati,
ai margini della strada, si soffre e basta, anche se ce la siamo andati a cercare.
Eppure, in quel momento di rarefazione esistenziale, di dolore assoluto,
con o senza Dio presente, possiamo diventare capaci di accoglienza, di dono, di condivisione,
di non lasciarci soffocare dalla rabbia assoluta e vedere altro dolore, altra sofferenza.
La vedova di Zerepta sa che uno straniero è in condizioni simili alle sue; guardato con
disprezzo, evitato, probabilmente Elia non avrebbe mai trovato un alloggio a Sidone.
Elia e la vedova si somigliano, i poveri, se riconciliati e affidati a Dio,
sanno diventare una sorgente di bene per i poveri come loro.
La vedova del vangelo—ingenua—mette quel poco che ha per il Tempio, per Dio.
Non sa dove finiranno i soldi, forse saranno disprezzati dal sacrestano del Tempio,
forse serviranno a comperare detersivo per i pavimenti…poco importa,
il suo gesto è assoluto, profetico, colmo di una tenerezza infinita.
Anche quando siamo incapaci di provare emozioni, o di desiderio di vita,
possiamo diventare luce, totalità, dono, speranza.
Non ce ne accorgiamo, ovvio, e forse neppure ce ne importa.
Come non importa a chi ha davvero dato tutto,
a chi davvero è stato masticato dalla vita e dal dolore.
Ci sono santi che stupiscono la Chiesa per il loro dinamismo e la loro forza interiore.
Altri santi che la edificazione per la loro trasparente oblazione,
per il modo in cui affrontano le fatiche della vita.
Come Mosè, il grande liberatore, il più grande della storia d’Israele,
colui che ha visto Dio faccia a faccia; colui che ha ricevuto nelle sue mani
le parole che Dio dona all’umanità per vivere; colui che, principe d’Egitto,
ha rinunciato al suo rango e si è fatto simile agli schiavi, muore sulle alture
del Golan, senza mai entrare in Israele. Ora è libero; finalmente.
Fratello masticato, sorella sanguinante, vedovi e vedove senza amore e rispetto,
delusi da voi stessi e dalla vita, dalle persone e dalle vicende, date in
elemosina ciò che avete dentro,
anche se poco, fatelo per Dio, fatelo perché credete nella vita, disperatamente.
E noi discepoli, fragile popolo di Dio, impariamo dalle vedove, dai poveri a contare
sull’Assoluto, ad abbandonarci—sul serio—nelle mani di Colui che tutto può.
Non la gloria, non la devozione, non l’apparenza (anche clericale e cattolica!)
ci salvano, ma l’essere mendicanti di Luce e di Dio.
Santa Domenica nel ricordo dell’Amore Misericordioso di Gesù, Fausto.
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