mercoledì 4 aprile 2012

Con il cuore nel Cenacolo assieme a Gesù

Gesù mandò alcuni discepoli in città e disse loro:
“Appena entrate in città, vi verrà incontro un uomo che
porta una brocca d’acqua; seguitelo………
Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata;
là preparerete”.
Essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto
e prepararono la Pasqua.
In quella sala, Gesù desiderò celebrare la sua ultima
Pasqua ebraica e la sua prima Pasqua cristiana.
Dunque il Cenacolo situato sulla collina di Sion,
non è una sala qualsiasi ma una chiesa, la chiesa fondata da Gesù, la chiesa di Gesù e
nostra prima chiesa cristiana.
Dopo quel primo giovedì Santo in quella sala—che fu risparmiata anche dalla distruzione
di Gerusalemme—il culto cristiano si è svolto ininterrottamente per anni e anni; per anni
e anni i pellegrini sono entrati in quella sala per venerarla come Madre di tutte le chiese,
ma anche come culla della chiesa nascente, conchiglia dello Spirito Santo, primo
Tabernacolo e Santuario della devozione cristiana.
Allora ci domandiamo; quali erano i sentimenti di Gesù, quando varcò la soglia di quel luogo?
Io i sentimenti di Gesù ho cercato di intuirli attraverso il Vangelo.
Il Vangelo ci narra che quando era a Gerusalemme, il Signore insegnava ogni giorno nel tempio;
e di notte usciva per pregare e stava sul monte degli Ulivi;
ma già fin dal mattino tutto il popolo lo cercava per ascoltarlo;
dovunque si spostava le folle lo seguivano, perché questo grande Rabbì compiva grandi prodigi,
misteri gratificanti ed esaltanti.
Quando però Gesù ha parlato di misteri dolorosi,
di misteri scandalosi, quando ha parlato di croce, di morte, di umiliazione,
allora le folle gli hanno voltato le spalle: “Quelle parole dice il Vangelo, chi poteva sostenerle?”.
Questo, è il prologo!
Allora con quale animo quella sera Gesù sarà entrato in quella sala sapendo che;
“da Dio era venuto e a Dio ritornava?”
Io credo che Gesù, quel giovedì Santo, sia entrato nel Cenacolo con una piccola speranza;
la speranza che almeno quel residuo, di dodici uomini accogliesse il mistero di quell’ultima Cena;
che non si scandalizzassero; che non lo abbandonassero; che resistessero alla prova:
Gesù doveva infatti provarli, doveva sapere se erano disposti a credere in un maestro,
Figlio di Dio, che lava i piedi ai discepoli e riassume in quel gesto tutta la follia delle Beatitudini;
doveva sapere se erano disposti a credere nel Dio dell’Eucaristia e, cioè in un Dio
che vuole soffrire e morire per riscattarci; che vuole alimentarci non solo nello spirito
ma anche nel corpo, facendosi pane per tutti, per ogni tempo; Gesù doveva sapere se erano
disposti a credere in un Dio che affida la sua nuova ed eterna alleanza al sacerdozio,
di uomini impreparati e peccatori.
Giuda non superò quella prova e fuggì… Gli altri undici restarono, nonostante lo sbigottimento;
restarono per; “aver parte” con Cristo.
“Anche se tutti si scandalizzassero di Te, io non mi scandalizzerò mai”, rispose Pietro a Gesù quella sera.
Pietro aveva queste repentine folgorazioni e capiva che il requisito fondamentale
per aver parte con Cristo era quello di non scandalizzarsi di lui; e quando Gesù
gli propose lo scandalo della lavanda dei piedi come condizione per essere con lui, esclamò:
“Non solo i piedi ma anche le mani e il capo!”
Pietro intuiva che il discepolo di Cristo deve anzitutto piegarsi al maestro, deve esercitare la fede,
deve insomma avere lo spirito pronto anche se la carne è debole.
La carne di Pietro era debole ma il suo spirito poteva pronunciare gli attestati di fede più sconvolgenti:
“Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”. E ora: “Io non mi scandalizzerò mai!”
Questa frase di Pietro può essere presa per chiave d’ingresso al Cenacolo; perché nel
Cenacolo Cristo ci attende, non per chiederci se la nostra carne è debole ma,
per chiederci se il nostro spirito è pronto.
Da quel giovedì Santo il Signore, continua a dare appuntamento nel Cenacolo a tutti i suoi,
a tutti noi, per verificare la nostra fede; ognuno di noi viene provato.
Perciò io dico; se non sappiamo accettare un Dio che sconvolge; se non sappiamo
benedire le sue vie anche quando non sono le nostre vie; se non sappiamo capire
che le sue ragioni non sono le nostre ragioni; se non sappiamo confidare in questo Dio
che tollera tutto ciò che a noi sembra intollerabile; cioè l’intollerabile dolore nel mondo,
l’intollerabile ingiustizia, l’intollerabile corruzione, l’intollerabile sfortuna dei buoni e la
fortuna dei cattivi, l’intollerabile sofferenza e la morte dei più piccoli; se non sappiamo
credere che il mistero di Dio è sempre un mistero d’Amore finalizzato all’Amore senza fine,
allora vi dico non entriamo nel Cenacolo; fuggiamo come fuggì Giuda, perché non potremo,
“aver parte”, con il Dio del Cenacolo; nel Cenacolo si entra con la fede a prova di mistero o non si entra;
in quella chiesa ci aspettano i misteri vertiginosi della nostra fede, misteri inviolabili.
Se la nostra fede resiste anche quando la nostra mentalità è calpestata; se la nostra fede
resiste anche quando la nostra carne è ferita; se la nostra fede resiste anche quando
Dio ci chiede troppo, allora e soltanto allora possiamo dire che la nostra fede è Fede,
e possiamo sperare di, “aver parte”, con il Signore.
Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e, che era venuto
da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio,
se lo cinse attorno alla vita; poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi
dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto; venne dunque
da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?” Rispose Gesù:
“Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”. Gli disse Simon Pietro:
“Non mi laverai mai i piedi!” Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.
Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Giovanni 13. 3-9)
Questo brano è paragonabile ad un cielo stellato, più noi fissiamo le stelle più ne vediamo,
è una visione ottica e questo dovrebbe accadere nel nostro animo, più noi fissiamo il nostro
pensiero a quello che è accaduto nel Cenacolo il giovedì Santo e più scopriamo qualche
nuova luce, qualche bagliore nuovo, è come se nel Cenacolo divampasse un incendio di luci.
Quei grandi eventi si aprono con il gesto solenne di Gesù, che all’inizio della cena depone il mantello,
versa dell’acqua in un catino e comincia a lavare i piedi ai discepoli.
Non so se sapete che a quell’epoca la legge diceva che:
“Non ti lascerai mai lavare i piedi, non permetterai mai a qualcuno di lavarti i piedi”.
Al tempo di Gesù, neppure gli schiavi erano obbligati a compiere questo servizio umiliante;
perciò ogni israelita osservante e tanto più un Rabbì avrebbe rispettato questa tradizione.
Invece il Rabbì di Nazaret, il Maestro dei dodici, la infrange fino al punto
di compiere lui stesso questo servizio.
“Quante luci risplendono in quel gesto così significativo!”
Il primo significato che si potrebbe cogliere, credo sia questo; nessuno, né discepolo, né maestro,
né schiavo, nessuno deve sentirsi umiliato nel compiere un atto di carità.
Se un nostro fratello ha i piedi stanchi, polverosi, bisognosi del nostro sollievo,
con letizia dobbiamo chinarci e servirlo; nessuna legge o consuetudine
umana può esentarci dalla carità.
Agli occhi di Dio non sarà mai umiliante un gesto suggerito dalla legge del cuore,
la legge divina è sempre dalla parte del cuore umano; lo sapeva San Francesco
che baciava i lebbrosi emarginati dalla società, lo sapeva Madre Teresa che raccoglieva gli impuri,
i dimenticati, i moribondi più ripugnanti e lo sanno i; “giusti” di ogni tempo che hanno
stimolato i popoli a mettere più cuore nelle loro leggi, che hanno combattuto contro
le leggi ingiuste, le leggi schiaviste, razziste, abortiste, le leggi dell’egoismo;
lo sanno i Santi che hanno inventato le scuole per i poveri, gli ospedali per gli ammalati,
gli ospizi per i senza tetto, le case per gli orfani, anche quando questa
carità non era nelle leggi degli uomini.
Il gesto di Gesù ci insegna che la carità è una legge più grande di ogni legge umana e
che il cristiano deve obbedire alla legge della coscienza prima di ogni altra legge.
Subito dopo questo significato, direi che ne affiora un altro non meno importante.
Con la lavanda dei piedi Gesù ci insegna che la carità va fatta in proprio, che non
possiamo dispensarcene; nella carità, il servo sia come il padrone, il Rabbì come il discepolo,
il ricco come il povero, il giovane come il vecchio.
La carità è la madre degli uomini e non c’è prestigio personale che esoneri un figlio
dall’obbedire a questa madre.
E andiamo allora ancora più in profondità; Gesù si china sui piedi dei discepoli;
i piedi non sono il volto, non sono una parte attraente dell’uomo; i piedi di Giovanni
non avevano la gentilezza del suo volto; i piedi di Filippo non attraevano come i suoi
bei lineamenti greci; i piedi di Pietro non conquistavano come i suoi slanci generosi.
I piedi sono una miseria al confronto; eppure Gesù si inginocchia davanti a tanta miseria
per insegnarci a servire i fratelli senza guardare al loro volto, senza guardare a simpatie,
a preferenze, ad attrattive, senza cercare alcuna gratificazione.
Ma c’è un’altra lezione da imparare che è quella di inginocchiarsi; saper imparare a
inginocchiarsi nel servizio ai fratelli ma, a sua volta, ogni fratello deve sapere accettare
la carità altrui con gratitudine e semplicità, come Gesù insegnò a
Pietro che non voleva farsi lavare i piedi.
Può darsi che un giorno tocchi a noi ad aver bisogno che ci lavino i piedi, il
capo e le mani, o che ci imbocchino, o che ci vestano.
Gesù ci insegna che per, “aver parte”, con Lui bisogna saper fare la carità ma anche
saper riceverla; la carità va fatta con dolcezza e umiltà ma va anche ricevuta con dolcezza e umiltà.
Quanta luce emana quel gesto di Gesù!
Se l’ultima Cena è la prima Messa nel mondo, allora la lavanda dei piedi è la prima omelia al mondo.
Ascoltiamola con commozione e raccoglimento; e facciamo tesoro della sua conclusione,
cioè delle parole che disse Gesù: “Anche voi, fate come io ho fatto a voi!”
È un invito che non è limitato alla lavanda dei piedi, ma vuole essere un invito molto più ampio,
vuol dire; in ogni cosa comportiamoci come si comporterebbe Cristo; impariamo
ad essere liberi da tutto e schiavi solo di Cristo.
In ogni cosa, chiediamoci cosa farebbe Cristo e facciamolo.
Imitiamo Cristo! È questa la regola d’oro della carità.
Quando ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro:
“Sapete ciò che vi ho fatto?” (Giovanni 13.12)
Ogni volta che abbiamo meditato la lavanda dei piedi, l’abbiamo sempre meditata
come una lezione sulla carità, giustamente, eppure sembra che non ne abbiamo
ancora appreso tutti i significati; sembra che il Signore continui a rivolgere anche
a noi la domanda che rivolse agli apostoli: “Capite che cosa vi ho fatto?”.
Prima di rispondergli, proviamo a riflettere e a chiederci; si può trarre un insegnamento
più profondo in quel gesto che appare soltanto un emblema della carità verso il prossimo?
Cos’altro dobbiamo capire della carità?
Per tentare di capire, cominciamo col tornare indietro a una lavanda di piedi
e a una cena precedente, dove sembra che Gesù sminuisca il valore
delle opere buone verso il prossimo.
È la cena di Betania!
Gesù vi prende parte insieme a Giuda e ad altri discepoli.
Durante il convito interviene Maria, che prese una libbra di essenza di nardo
da un vaso prezioso, unge il capo e i piedi di Gesù.
Tutta la casa si riempie della fragranza di quel profumo.
Giuda però osa esprimere il suo disappunto; e lo fa con un argomento che avrebbe
dovuto chiudere la bocca al suo Rabbì: “Non era meglio che si vendesse quell’unguento per
darne il ricavato ai poveri?”
Ma ancora una volta, Gesù rovescia la situazione e fa a pezzi le certezze di chi lo circonda:
“Lasciatela stare, dice, essa ha compiuto un’opera buona verso di me; i poveri li
avete sempre con voi, ma non sempre avete me; dovunque sarà annunziato il
Vangelo in tutto il mondo, si narrerà ciò che essa ha fatto”.
Poi, Gesù sottolinea un altro punto importante: “Ciò che poteva fare, ella lo ha fatto,
ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura”.
È questo il punto che volevo fare affiorare.
A questa mensa Gesù insegna che le occasioni per offrire a Dio un atto d’amore
non vanno perdute; e che un atto d’amore dedicato a Lui ci conduce misteriosamente
a compiere atti d’amore per l’uomo; così come il nardo della Maddalena, dedicato al vero Dio,
diventa atto pietoso anche per il vero uomo; per la sepoltura del suo corpo.
La mensa di Betania è la lezione complementare alla lezione del Cenacolo; perché la vera carità,
la carità piena, la carità santa di cui ci parla San Paolo, si esercita soltanto quando
si esercita anche la carità verso Dio.
Se non spendiamo il profumo della nostra anima per Cristo, se non ci inginocchiamo ai suoi piedi,
se non guardiamo a Lui, la nostra carità rischia di essere fragile e non matura, di essere superficiale,
(tanto per mettere la coscienza tranquilla) non integra, affannosa e
non gioiosa, antiquata e non profetica.
Il Signore è morto in Croce non perché il cristiano semini nella sua vita minuscoli miracoli
di carità quotidiana, ma perché tutta la sua vita sia un intero miracolo di carità.
E questo autentico miracolo si compie soltanto con Lui.
La lezione che Gesù dette a Giuda in Betania e la lezione che dette agli Apostoli nel Cenacolo
sono un’unica lezione, sono un unico modello per il cristiano; come i due comandamenti
nuovi del Signore sono un unico comandamento: “Ama Dio con tutto te stesso,
con tutte le tue forze, e ama il prossimo tuo come te stesso”.
Un cristianesimo che si riduce alla pratica di una certa
solidarietà con il prossimo, non ha più niente a che fare con il cristianesimo evangelico;
la carità cristiana è una forma di amore che rivolgiamo a Dio.
L’amore per Dio sorpassa i limiti di una carità puramente umana e carnale, perché ci fa
amare il prossimo nella sua dimensione e vocazione eterna.
Si tratta dunque di conservare e di aumentare in noi quel senso di Dio che deve essere
il fondamento di ogni nostro rapporto con gli altri.
Nella contemplazione di Dio, si svegliano nell’uomo i sentimenti profondi della donazione
e della lode, cioè i sentimenti che fanno parte della dimensione integrale dell’uomo;
per cui un uomo che non ha questo senso di Dio, è un uomo a cui manca qualcosa,
manca il vaso dell’amore, manca la totalità dell’amore autentico.
In certe epoche del cristianesimo si è data poca importanza all’amore del prossimo.
Ma l’errore di oggi, reale e grande, è inverso.
Oggi si è tentati di credere che il cristianesimo si esprima essenzialmente con l’amore
del prossimo, e facciamo dell’amore di Dio qualcosa di secondario.
Questo è radicalmente contrario all’esempio di Cristo; tutta la vita di Cristo fu un
duplice rapporto, uno con i fratelli, l’altro più profondo e intimo con il Padre.
Così deve essere anche per noi, l’equilibrio della nostra vita cristiana dipende dalla misura
in cui siamo capaci di unire queste due dimensioni, l’amore a Dio e l’amore al prossimo.
Allora alla domanda che Gesù rivolge a tutti noi nel suo Santuario è: “Capite cosa vi ho fatto?”
E noi rispondiamo umilmente:
“Signore, non sappiamo se abbiamo davvero capito, ma Tu, aiutaci a capire”.

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