giovedì 5 aprile 2012

Col Cuore al Getsemani

Una grande Basilica si erge quasi a difendere una roccia all’incuria del tempo,
racchiude in se una grande reliquia dell’agonia di Gesù, una reliquia tragica, impressionante; è la roccia dove Cristo agonizzò, sudando sangue
e invocando conforto dagli uomini e da Dio.
Ma gli uomini dormivano e il Padre taceva.
La roccia è rimasta quasi impregnata da quell’accasciamento e, nel suo
immenso significato emerge dal pavimento e si curva davanti all’Altare.
A un tiro di sasso dalla roccia, dice il Vangelo, c’è l’orto del frantoio con
gli ulivi millenari squarciati che sembrano testimoniare partecipi di quell’agonia.
Pensiamo di entrare e di meditare sulla notte del Getsemani,
però prima vorrei meditare con voi sul Dio del Getsemani.
Non basterebbero giorni e giorni per riflettere questo mistero;
noi purtroppo possiamo soltanto sfiorarlo con qualche povero cenno.
Noi abbiamo la fortuna di appartenere ad una religione rivelata,
cioè una religione che per fede riteniamo originata da Dio, un Dio che ha parlato agli uomini
di tutti i tempi ed ha comunicato loro la sua legge, i suoi comandamenti.
E la nostra religione cristiana si erge su tutte le altre, perché ha accolto la rivelazione di Dio,
diverso dalle attese carnali dell’uomo, ha accolto non un Messia glorioso sulla terra,
ma un Messia glorioso nei Cieli; ha accolto il Crocifisso, l’Uomo dei dolori…….!
E non è proprio questo il Messia annunciato dalle profezie contenute nella Bibbia?
Nessuna religione al mondo, eccetto il cristianesimo, crede in un Dio sofferente,
un Dio torturato e oltraggiato, un Dio incarnato e soggetto a morte.
La nascita di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte, mettono un sigillo di unicità al Dio dei cristiani.
Si può dire con poche e povere parole, che mentre le altre religioni si fossilizzano,
in un Dio lontano dall’uomo vivente, estraneo al suo sentire e al suo soffrire, il cristianesimo
si anima nell’abbraccio di un Dio vivente, un Messia palpitante con gli uomini di tutti i giorni.
Perciò il cristiano vero si arricchisce di umanità, nell’abbraccio di un Crocifisso che,
è più umano dell’uomo, è tutto dolore e Misericordia.
Dolore e Misericordia, sofferenza e Amore, sono i 2 pilastri su cui poggia l’arcobaleno dell’umanità;
se Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza, questo Dio non può essere lontano da questo arcobaleno.
Se l’uomo desidera----come desidera----Dio, allora Dio deve desiderare l’uomo; se l’uomo-----sua
immagine-----è in cerca perennemente di Dio, allora Dio deve essere perennemente in cerca dell’uomo.
Cristo è venuto fra noi come Verbo, come Parola, per parlarci di questo Dio vicino, di questo Dio che ci cerca;
è venuto per dircene il nome: “Padre, ho manifestato il tuo nome agli uomini”.
E il nome che Gesù ci ha rivelato del Padre è Amore, è tenerezza, è paternità, è condivisione e trepidazione.
Il Figlio di Dio, questo Cristo dolente e amante, è venuto fra noi per manifestarci,
che il Padre non si è chiuso in un olimpo; “giustiziere”, ne in un olimpo; “fanatico”.
Cristo è venuto a rivelarci che il Padre ci ama, ci ama tanto da inviarci lo Spirito di Verità,
affinché ispiri nella nostra vita la verità; ci ama tanto da dare il suo Figlio diletto per riscattare
il peccato dell’uomo; ci ama fino al punto da desiderare l’eterna Comunione con noi!
È questa la rivelazione che il Messia è venuto a farci sulla terra.
Nella sala alta del Cenacolo, poco prima di entrare nell’orto del Getsemani, Gesù ha detto:
“Chi ha visto Me, ha visto il Padre, Credetemi, Io sono nel Padre e il Padre è in Me…… Il Paraclito,
lo Spirito di Santità che il Padre vi manderà nel mio nome, lo Spirito di Verità vi guiderà”.
Allora con questa fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, con l’entusiasmo e il privilegio di questa
fede, entriamo nel Getsemani, uno fra i luoghi più “umani”, che il nostro Dio ci ha lasciato in suo ricordo.
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsemani e, disse ai discepoli: “Sedetevi qui,
mentre Io vado là a pregare”.
E presi con se Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con Me”.
E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: “Padre mio,
se è possibile passi da Me questo calice!
Però non come voglio Io, ma come vuoi Tu!” (Matteo 26,36-39).
Uscito dal Cenacolo, Gesù si è diretto verso l’orto dove era solito appartarsi con i suoi,
per passare la notte in preghiera.
Ha chiamato più vicini a sé Pietro, Giacomo e Giovanni; si è allontanato alcuni passi e si è prostrato a terra.
San Luca precisa: “Entrato in agonia, il Signore pregava più intensamente; e il suo sudore divenne come
gocce di sangue che cadevano a terra”.
È questa dura e crudele sofferenza che noi vogliamo meditare.
Ma c’è un atteggiamento interiore che vorrei raccomandare a me e a voi quando riflettiamo sull’agonia
di Gesù; ed è un atteggiamento di umiltà.
Perché, siamo davanti ad un vero uomo, ma siamo davanti anche al vero Dio, non dimentichiamolo.
Non possiamo toglierli tutti i veli, non possiamo penetrare del tutto il Lui; la sua dimensione
spirituale resterà sempre in qualche modo impenetrabile a noi uomini.
Invece, purtroppo, noi ci abbandoniamo spesso a interpretazioni presuntuose su questa agonia di Gesù.
Interpretiamo la sua divina esperienza con la nostra meschina esperienza; pretendiamo di radiografare
e di leggere quel patimento con i nostri miseri sensi; con le nostre lenti miopi.
Osiamo perfino ridurre tutta l’angoscia di Cristo a una paura; la paura dei chiodi, della crocifissione,
della morte; come se il sublime Rabbì di Nazareth fosse meno eroico del povero pescatore Simon Pietro,
che abbracciò la croce con slancio, con entusiasmo; per poi defilarsi per paura, alla prima occasione
capitatagli per dimostrare al Maestro il suo amore per Lui.
Vorrei però cercare di sfiorare con umiltà il mistero della sofferenza di Gesù nel Getsemani.
Nell’Antico Testamento la sofferenza era vista come una disgrazia; la si riteneva un castigo di Dio
(però non siamo tanto lontani neanche adesso).
I Salmi traboccano di grida di angoscia e di suppliche; si invoca incessantemente Dio per essere liberati
dai mali che appaiono come un marchio di condanna, un marchio di indegnità e di scandalo per gli altri.
Finche avviene una folgorazione, attraverso i Profeti, uno sprazzo di luce sconvolgente; c’è la scoperta della sofferenza e del suo valore di redenzione; una scoperta che si precisa ed emerge nella profezia di Isaia.
Si staglia all’orizzonte dell’Antico Testamento la figura misteriosa dell’Uomo dei dolori,
“disprezzato e reietto dagli uomini, familiare col patire”.
Segno distintivo di quest’Uomo dolente è il patimento; ma la colpa non è in Lui; Egli è innocente;
e nonostante tutto si confonde con i peccatori, portando su di sé la loro colpa:
“Ha portato i nostri affanni, si è addossato i nostri dolori, è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il nostro castigo si è abbattuto su di Lui, per le sue piaghe siamo stati guariti”, annuncia Isaia.
Questa profezia del Messia, illumina come un bagliore nella notte dei tempi la figura e la missione
di Gesù di Nazareth; illumina la sua rivelazione.
E ci accorgiamo che Cristo non è venuto soltanto a portare la legge dell’amore,
ma è venuto a portare la fede nel dolore; è venuto a restituire dignità al dolore.
Dall’alto della collina delle Beatitudini egli annuncia il dolore come gloria: “Beati quelli che
piangono”…….. annuncia il dolore non più come segno di castigo, ma come segno di predilezione per
coloro che lo porteranno per amore di Dio e degli uomini.
La passione e la morte di Cristo, divengono la pienezza delle rivelazioni del disegno di Dio; il trionfo dell’Amore.
Nella croce di Cristo esplode la vittoria dell’Amore.
L’angoscia mortale di Cristo nel Getsemani è dunque l’esplosione di questa vittoria.
E Cristo stesso ce lo dice: “L’anima mia è turbata; e che dirò? Padre, salvami da quest’ora?
Ma è per questo che sono giunto a quest’ora!
Cristo dunque, venne per l’ora che batte nell’orto degli Ulivi. Ricordiamolo!
Cristo venne per l’immensa agonia che ci avrebbe portato l’immensa salvezza.
Allora, non vi pare che la nostra meditazione sul Getsemani si stia snebbiando?
Ora comprendiamo che il nostro errore più grande è quello di voler rimpicciolire, immiserire,
le sofferenze del Salvatore del mondo; è quello di ridurre le sue innumerevoli sofferenze a una sola sofferenza;
è quello di livellare le sue misteriose sofferenze al livello delle sofferenze che noi conosciamo;
è quello di adeguarle a misura nostra, mentre esse erano a misura del Messia, del Figlio di Dio.
La misteriosa sofferenza di Gesù, fu una somma di sofferenza tale che nessun uomo ne avrebbe
mai potuto portare una uguale.
La sofferenza di Cristo fu un oceano di sofferenze.
Le ondate del dolore fisico e psicologico, furono così violente da fargli sudare sangue; perché erano
le ondate di tutto il nostro dolore; dei nostri mali, delle nostre solitudini e dei nostri supplizi.
E su di esse si abbattevano senza respiro i flutti dei patimenti morali.
Sulla riva del Cuore Amante di Gesù, venivano a infrangersi tutti i tradimenti, tutte le offese,
tutti i raccapriccianti peccati che l’uomo avrebbe commesso, infrangendo la legge di Dio.
Colui che era Figlio di Dio, tutt’Uno col Padre, ne riceveva lo schiaffo.
Io credo che nella trasparenza del calice amaro del Getsemani, Gesù intravide tutto il dolore paterno!
E fu l’anticipo del fiele che gli avrebbero fatto bere.
Ma tutto questo era ancora poco.
Era ancora poco perché tutto fosse compiuto.
Ai dolori fisici e morali si doveva aggiungere il dolore estremo, il dolore più straziante per il Figlio;
quello di perdere il Padre, quello di restare senza di Lui.
Il Vangelo ci rivela in tanti modi che Gesù godeva il favore della presenza del Padre,
dell’unione mistica con Lui.
Quando il Padre, come ultima prova si nascose a Gesù, lo spezzarsi di quel legame prezioso dovette essere
per il Figlio di Dio come uno schianto esistenziale, dovette assomigliare allo spasimo di uno cui si toglie l’aria.
Io credo che a quel dolore il cuore di Cristo non resse: “Padre, se è possibile, si allontani da me questo
calice”……. la perdita di quella luce dovette essere per Gesù come un’insostenibile;
“notte oscura”……”una notte dello spirito”, un deserto di tenebre, di abbattimento; terra natale della morte,
notte dell’abbandono, caverna della desolazione; notte altissima di ore terribili, in cui Dio è ignoto all’anima.
L’anima vuol sentirlo ad ogni costo, ma dove ritrovarlo? Dove cercarlo?
Nulla rimane, se non fare ascendere al trono del Padre questo lamento: “Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?”.
Nel Getsemani, Gesù visse l’ora per la quale era venuto, l’ora della vittima d’Amore per eccellenza:
“Sacerdote in eterno”, che soffre e si offre per la nostra salvezza.
Impariamo a tacere davanti a Gesù agonizzante.
Il nostro compito non è quello di scoprire, di comprendere, di misurare il dolore di Gesù;
il nostro compito è quello di vegliare con Lui nell’ora del dolore.
“Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”. (Matteo 26,40)
Il luogo più importante credo sia il Getsemani, perché in quel luogo il Salvatore non ci ha dato ma ci ha chiesto;
e a questo Cristo che chiede non si può non rispondere; non si può chiudere il cuore ma bisogna spalancarlo.
Che ora stupenda, è l’ora in cui Gesù ci chiama a stargli vicino mentre prega!
Quante emozioni, quante commozioni!
Nel buio dell’agonia, affiorano i lineamenti di Gesù orante, di Gesù maestro di interiorità.
Noi pensiamo troppo poco ai grandi momenti di preghiera del Signore; eppure, quante volte
il Vangelo li sottolinea: “Gesù si ritira a pregare…..Gesù invita gli Apostoli a pregare…….”.
Non consideriamo mai abbastanza che Gesù è l’Essere più religioso che sia vissuto su questa terra;
e dimentichiamo sempre di chiedergli di ravvivare la nostra religiosità, la nostra devozione:
“Signore, dovremmo dirgli, come gli dissero gli Apostoli; insegnaci a pregare!”.
E sarebbe già questa una bellissima preghiera.
Ora, mentre Lui prega, prostrato, noi scopriamo che Cristo non è altro che una preghiera vivente;
che la sua esistenza non è stata altro che una continua ricerca di contatto con il Padre;
che nel rapporto con il Padre, Cristo trova l’ispirazione per la sua Parola, per i suoi Atti;
scopriamo che in Lui non ci sono differenze tra il vivere e il pregare, ma è pregando che Egli apprende
come incarnare l’Amore che lo lega al Padre; scopriamo che la sua preghiera non è; -----come lo è per noi---,
uno stanco mormorio di labbra, ma è la ricerca struggente di ciò che il Padre vuole, desidera e attende.
Non so se anche voi vi sentite come attirati, calamitati, ad entrare un po’ di più dentro questo Gesù
del Getsemani, che prega, che soffre, che geme: “Vegliate con me, restate con me almeno un’ora!”.
Non sentite anche voi un’emozione particolare a questa supplica?
Sembra come l’invito ad una condivisione più intima, ad una vicinanza più stretta, ad un legame più assoluto.
Credo che il Getsemani ci lancia un invito speciale; più che a pregare, più che a meditare ,
il Getsemani ci invita a contemplare Cristo.
“Contemplare”, è l’apice della preghiera, contemplare è rinunciare alle proprie parole,
alle proprie inclinazioni; “contemplare”, è diventare soltanto sguardo, ascolto e penetrazione.
“Contemplare”, è cercare di conoscere Dio più di noi stessi; “contemplare”, è distogliersi da noi,
per fissarsi in Dio, sulle bellezze e sulle meraviglie di Lui; contemplare Dio,
è posare lo sguardo sul Dio vero; ed è sentire il suo sguardo, come si sente lo
sguardo della persona amata, quando ci è vicina e noi chiudiamo gli occhi.
Contemplare Lui è dimenticarsi di noi e sciogliersi in lui.
San Paolo dice: ”Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Mi pare che ci aiuti a capire cos’è la comunione con Dio, che si realizza pienamente
soltanto immergendosi in Lui.
Ascoltatela e non la dimenticherete più.
Non si conosce Dio dalla dottrina o dalle immagini.
Il segreto del vero possesso è l’incontro, è la comunione, è un lavoro di fusione che non finisce
mai e che è sempre suscettibile di perfezionarsi.
Vi sarà qualcosa che si perde di noi ma non è una perdita, è una conquista; ciò che noi stiamo
per diventare è più splendido e appagante di ciò che eravamo prima!
Dalla grotta del Getsemani, il Signore ci invita a conoscerlo in questa maniera totale,
in questa fusione crescente e lievitante.
Restate con me, rimanete con me!
Si, restiamo con Lui, immaginiamoci in Lui!
E alla fine grideremo anche noi: “Sono io! Io che vivo, io in Lui e Lui in me!
Lui l’oceano di cui siamo i granelli di sale. Lui, la vite di cui siamo i tralci!”.
Venne la terza volta e disse l’oro: “Dormite ormai e riposatevi!
Basta, è venuta l’ora; ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori”.
(Marco 14,41)
Al termine della cena nella sala alta del Cenacolo, il Signore aveva iniziato la sua stupenda
preghiera dicendo: “Padre, l’ora è giunta……!
Al termine della sua preghiera nel Getsemani, questa stessa frase torna nuovamente
sulle labbra di Gesù! Ecco è giunta l’ora……”.
L’ora del Salvatore è paradossalmente l’ora della passione.
Ma è anche l’ora della sua glorificazione.
Attraverso l’ora del suo sacrificio, Cristo passa dalla gloria effimera delle folle, alla gloria perenne del Padre.
Il titolo di gloria di Gesù davanti al Padre è la sua volontà di riscattare il genere umano, di
riconciliare il Cielo con la Terra, di restituire al Paradiso i figli scacciati.
Per questa gloria Cristo si è caricato della Croce, si è addossato i nostri affanni e i nostri dolori,
è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, castigato e umiliato
fino alla morte sul Golgota; tutto è stato consumato, tutto è stato vinto da Lui.
Tramite Lui, gli uomini hanno recuperato la sorte di figli di Dio e con Lui risorgeranno.
Ma in nome dell’Amore che è comunione, è necessario che tutti noi portiamo la nostra porzione
di sofferenza, di passione, per partecipare alla glorificazione di Cristo.
Anche per noi, deve giungere l’ora del dolore in attesa dell’ora della gloria.
È stato detto: “Nessun uomo è senza dolore; e se così fosse, non sarebbe un uomo”.
Perché l’uomo è sensibile, è comunione; se anche non soffrisse mai per sé, soffrirebbe per
quelli che soffrono, altrimenti sarebbe disumano.
Tanto meno il nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è disumano.
Difatti;----come dice San Paolo-----Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un
tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso assumendo forma umana.
Anche la sua preghiera nel Getsemani, è in forma umana:
“Padre se è possibile allontana da me questo calice!”.
Sembra che Cristo voglia dire a ciascuno di noi.
Prega anche tu così, come ho pregato Io.
Puoi chiedere anche tu che il tuo calice si allontani da te.
Il Padre è un Dio pietoso, è un Dio che ti viene incontro, un Dio che, se possibile,
ti toglierà questa croce dalle spalle. PREGA!
Il Padre è un Dio giusto che in ogni modo userà la tua preghiera a tuo favore e come una moneta;
te la scambierà con l’oro del conforto, della dolcezza, del coraggio per aiutarti a portare quel peso quale offerta.
Spesso parliamo dei Santi, dei mistici, dei martiri, che sono stati chiamati alla vocazione
della sofferenza per amore di Cristo e delle anime.
Ma Dio non chiama soltanto i grandi santi a soffrire con Lui, chiama innanzitutto i sofferenti,
chiama i desolati, gli ammalati, i moribondi, chiama coloro che patiscono ingiustizie, delusioni,
solitudini: “Non soffrite senza scopo, -----Egli vorrebbe dir loro----- non soffrite senza lucerna accesa,
offritemi le pene che vi pesano sul cuore, che vi pesano sulle spalle, che vi pesano sul cammino;
offritemi la vostra rassegnazione alle prove che non potete sfuggire, ed io le gradirò, le farò profumare
e le presenterò al Padre che le considererà come un talento trafficato, un talento moltiplicato”.
Gli uomini che non conoscono Cristo, o che lo rifiutano, portano la croce senza offrirla e
senza trasfigurarla; il più delle volte nella disperazione.
Ma noi cristiani possiamo portare la nostra croce per amore di Cristo, offrendola a Lui e
trasfigurandola in speranza di felicità eterna.
Tempo fa in un monastero di clausura, una suora anziana mi diceva: “Sono in monastero da 52 anni,
sono molto malata e soffro molto, ma non desidero di morire, perché penso che allora cesserei di amare.
È proprio questo che serve alla Chiesa per salvare i fratelli; soffrire e amare.
Non l’ho chiesta io la mia sofferenza, perché dovrei chiederne la fine cessando di salvare i peccatori?”.
Che meravigliosa intuizione ha avuto quella suora!
Che fede stupenda e luminosa!
Servire Dio con il dolore che non abbiamo chiesto, ma che ci è piombato addosso!
Le forze più vive della Chiesa di oggi e di sempre sono queste anime devote e generose
che trovano l’amore nel dolore.
Io credo che nel Calice dell’Altare, insieme al suo Sangue, il Signore ci fa bere anche il suo Amore;
quel Calice diventa come un filtro d’Amore; nutriti da Cristo, si diventa innamorati anche noi;
per chi accetta di berlo, il Calice della passione, diventa Calice di gioia.
Allora, quando una grande prova si abbatte su di noi, non chiediamoci se quella prova è giusta o ingiusta,
non diciamo: “Perché a me? Perché questa croce?”.
Crediamo invece all’uso divino che Dio fa di quella sofferenza!
Noi sappiamo bene quante grazie strappano a Dio i santi con il loro fiat; allora anche noi,
di ogni prova non voluta facciamone un atto di fede e di generosità.
Comprenderemo così la straordinaria affermazione di San Paolo, quando scrive: “A voi è stato
concesso di patire con Cristo!”-------Concesso------, come un privilegio; concesso!
È questa la forza, la gioia, la grazia che distingue i cristiani, perché credono in un Dio sofferente.
L’uomo è sempre sofferente, ma il cristiano sofferente ha il privilegio di soffrire con il suo Dio.
“Quello che dico a voi lo dico a tutti; vegliate!”. (Marco 13,37)
Quante volte il Signore dovette ripetere agli Apostoli in quella tragica notte: “Vegliate!”.
E quante volte anche noi ci facciamo ripetere: “Non sapete vegliare neppure un’ora con Me?”.
Quando in una mattinata nebbiosa il sole si fa largo e rischiara la nebbia fino a sconfiggerla e fa
brillare le gocce di nebbia adagiate sugli alberi, dentro di noi se ne va la tristezza e ritorna il sorriso.
Allora destiamoci, scrolliamoci di dosso la nebbia che ricopre i nostri occhi e offusca la nostra mente!
Il Getsemani è il luogo dei nostri appuntamenti con il nostro Dio; e che sia anche il luogo del nostro
ravvedimento, il luogo dove ci svegliamo per riparare alle nostre miserie!
Credo che il Getsemani, non sia solo un luogo della Terra Santa, ma è il confessionale dove si piange
il nostro sonno e dove ci si impegna a convertirci; anzi più che a convertirci; ci si impegna ad
una conversione costante; cioè ci si impegna a un costante esame di coscienza, non
dimenticando-----cosa che invece è tanto facile dimenticare------, di interrogarci sui nostri quotidiani
peccati di cristiani, cristiani in famiglia, cristiani nel lavoro, in parrocchia e cristiani in cammino.
Per stimolarci a questa continua revisione interiore, dobbiamo continuamente fare un esame di coscienza,
perché c’è sempre la tentazione che si insinua in noi, quando crediamo di essere cresciuti nella fede.
Ci crediamo pronti, sicuri, forti, vorremmo addirittura condividere la sua passione, per poi traballare
alla prima avvisaglia della sofferenza!
Ma la vera Passione del cristiano, cos’è!
1. La passione, la nostra passione, noi dobbiamo attenderla.
2. Noi sappiamo che deve venire.
3. Il sacrificio di noi stessi, noi l’aspettiamo.
4. Come un ceppo sul fuoco, così noi sappiamo di dover essere consumati.
5. Come un filo di lana reciso dalle forbici, così dobbiamo essere preparati.
6. Come un giovane animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
7. La passione, la passione con la P. maiuscola. Noi l’attendiamo.
8. L’attendiamo ed essa non viene.
9. Vengono invece le passioni: “Le passioni, queste briciole di passione che hanno lo scopo, Signore,
di ucciderci lentamente per la tua gloria, senza la nostra gloria”.
10. Sin dal mattino ci vengono incontro; sono i nervi troppo tesi o troppo lenti; è il latte che trabocca,
l’autobus che passa affollato, i bambini che tutto scombinano; è l’antipatia di chi lavora con noi;
è il telefono impazzito; è coloro che amiamo e non ci amano più, è la voglia di tacere e il dovere di parlare;
è la voglia di parlare e la necessità di tacere; è il volere uscire quando si è costretti a stare in casa e il
volere rimanere a casa quando bisogna uscire; è la persona a cui vorremmo appoggiarci e che invece dobbiamo sorreggere; è il disgusto della nostra fatica quotidiana, è il desiderio febbrile della nostra gioia quotidiana.
Così vengono le nostre passioni; in ranghi serrati o in fila indiana; e dimentichiamo sempre di dirci che
sono le passioni preparate per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che, come ci sono i rami che si inceneriscono nel fuoco, così ci sono le
tavole di legno che i passi lentamente logorano e che si disfano in segatura.
Perché abbiamo dimenticato che ci sono fili di lana tagliati netti dalle forbici e ci sono fili di maglia
che l’usura quotidiana lentamente consuma.
Perché abbiamo dimenticato che ogni martirio è Passione.
Da questa pagina sapiente impariamo a verificare la nostra maturità di cristiani; impariamo ad esaminarci,
a svegliarci, a “vegliare”, come ci chiede Cristo nel Getsemani.
Che ciascuno di noi si sforzi di vivere le passioni di ogni giorno, le proprie passioni ogni giorno.
Ed essi addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: “Sono forse io, Signore?”.
Ed Egli rispose: “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà; Giuda, il traditore,
disse: “Rabbì, sono forse io?”. Gli rispose: “Tu l’hai detto”. (Matteo 26022-25)
Preso il boccone, egli subito uscì, ed era notte. (Giovanni 13,30)
“Quello che bacerò è Lui, arrestatelo!”.
E subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve Rabbì”. E lo baciò.
E Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui!”.
Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. (Matteo 26,48-50)
Vogliamo riflettere sul tragico epilogo del giovedì Santo; il tradimento di Giuda.
Si sono fatti sempre tanti discorsi, tanti romanzi su questa figura impenetrabile e misteriosa.
Ma noi ora cercheremo di fare un discorso diverso dal solito, cioè di attenerci soltanto al Vangelo.
Anche Giuda è un “chiamato”, anche lui è stato scelto da Gesù quando là sulla collina della
Galilea -----come dice il Vangelo------ il Maestro ha costituito i suoi discepoli, affinché andassero
a predicare, avessero potere di guarire le infermità e di cacciare i demoni.
Giuda restò con il Signore fino all’ultima cena, fin quando, preso il boccone, uscì dal Cenacolo.
È come se con quella fuga, Giuda quasi non reggesse allo sguardo doloroso di Cristo fisso nel suo,
avesse detto: “Sì, sono io il traditore”.
Cos’era passato fra il primo “sì” di Giuda in Galilea, e il suo ultimo “si” nell’ultima cena?
Nel racconto evangelico di una cena precedente, la cena di Betania quando la Maddalena versò
unguento prezioso (il nardo) sui piedi di Gesù, suscitando il rimprovero di Giuda,
perché l’olio poteva essere venduto per darne il ricavato ai poveri Giovanni dà un giudizio duro
sul compagno: “Questo lo disse non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e siccome
teneva la cassa, prendeva quello che gli mettevano dentro”.
Secondo Marco, fu proprio dopo quella cena che Giuda decise di consegnare Cristo ai sommi sacerdoti.
La stessa cosa ci dice Matteo, che precisa il premio del tradimento; trenta monete d’argento,
il prezzo fissato dalla legge per la vita di uno schiavo.
Ma stiamo attenti; queste notizie e questi giudizi sono stati scritti decenni dopo i fatti.
In realtà alla mensa nel Cenacolo, quando Gesù annuncia che uno di loro lo tradirà,
nessuno pensa a Giuda, nessuno dubita di lui.
Anzi, gli Evangelisti concordano nel dire che, rattristati, tutti cominciarono a chiedersi a vicenda
“chi di essi avrebbe fatto ciò”.
Dunque soltanto Gesù, in virtù dei suoi poteri divini, soprannaturali, sapeva tutto del tradimento
e del traditore.
Cos’è che motivò il distacco di Giuda dal Rabbì a cui si era promesso in Galilea?
Fu l’avidità del denaro?
Ma quei miseri trenta denari, non sembrano il prezzo giusto di una trattativa interessata;
sembrano quasi uno spregio in più, per il valore del Rabbì!
Forse un dato importante per capire Giuda è il fatto che lui è l’unico giudeo nel gruppo degli Apostoli,
tutti uomini della Galilea; questa cittadinanza ha certamente pesato nello svolgimento del dramma.
Si può pensare infatti che l’Iscariota fosse materialmente e psicologicamente vicino all’ambiente dei
Giudei di Gerusalemme, cioè agli intrighi politici e religiosi che avevano il loro focolaio nella cerchia
dei sommi sacerdoti, degli anziani, degli scribi, dei farisei; tutta gente che sognava l’arrivo di un capo,
di un re capace di scuotere il giogo di Roma.
E il Rabbì di Nazareth, sembrò certamente il personaggio ideale per questo ruolo.
Intanto, era della stirpe di Davide, la stirpe destinata a regnare su Israele, secondo le profezie;
era giovane, radioso, religioso, irreprensibile, era un grande taumaturgo, sempre assediato dalle folle,
ascoltato dal popolo; era sapiente, era un Rabbì straordinario come non se ne erano mai visti.
All’inizio perciò, Giuda può avere riversato sinceramente su Gesù tutto il suo entusiasmo;
e più Cristo diveniva popolare, più giustificava le speranze riposte in Lui.
Ma poco a poco però, Gesù cominciava a deludere i suoi sostenitori; sempre più spesso questo Rabbì
predica contro gli scribi e i farisei: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che imponete la decima, ma avete
trascurato le parti più importanti della legge; la giustizia, le misericordia e la fedeltà. Guai a voi!”.
Nel Vangelo di San Matteo ci sono splendidi brani sulle ammonizioni di Gesù,
ammonizioni preziose anche per raddrizzare la nostra mentalità, non sempre lontana da quella farisaica.
Ogni giorno di più il Signore manifestava la sua indifferenza e il suo disprezzo per i regni di questo mondo,
per la gloria di questo mondo: “Io non sono venuto per essere servito ma per servire”, diceva.
Non solo, cominciò anche a profetizzare la sua passione e la sua morte in croce, mandando in frantumi
i sogni di chi guardava a Lui come al trionfatore.
Quel Rabbì cominciava allora a far paura al potere religioso di Gerusalemme; il suo ascendente
sulla folla non è più gradito, anzi diventa pericoloso.
Dopo la clamorosa resurrezione di Lazzaro, la misura appare colma.
È impressionante il realismo della congiura narrata dal Vangelo:
E che facciamo-----si chiedono gli scribi------, mentre quest’uomo fa tanti miracoli?
Se lo lasciamo fare così ci screditerà e, i Romani distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”.
E Caifa, il sommo sacerdote aggiunse: “Voi non capite e non riflettete come sia di nostro interesse
che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca l’intera nazione”.
Gli Evangelisti narrano che Giuda uscì dal Cenacolo dopo aver già trattato il tradimento.
E ci chiediamo, fu Giuda ad accostare per primo il potere, o fu il potere che accostò Giuda,
indovinando la sua disponibilità a tradire?
Oppure, come è più probabile, il rapporto tra costoro era di più antica data?
Domande inutili.
Gli Evangelisti ci dicono solo che, all’uscita del Getsemani il traditore si fece incontro a Gesù
guidando i soldati con le armi e le lucerne per illuminare il bacio del tradimento.
Ci dicono che poi Giuda si pentì di aver tradito sangue innocente e volle annullare quel fatto scellerato,
ma non riuscendovi, s’impiccò ad un albero e si uccise.
Quale fu la colpa più grave di Giuda; il tradimento o il disperato suicidio?
Diciamo piuttosto che la colpa più grave di Giuda fu una colpa “a monte”, a monte del tradimento
e della disperazione.
Giuda fu colpevole di essere stato scelto e amato da Cristo, di essere vissuto tanto tempo con Lui,
al calore della stessa mensa, sotto lo sguardo di quelle pupille, nel fascino di ore e ore trascorse in
preghiera e in ardenti colloqui con Lui e, ciò nonostante di non avergli creduto!
Di non avere creduto che Egli fosse il Figlio di Dio, come Egli asseriva di essere;
lo credette soltanto un uomo, sia pure giusto, sia pure innocente.
È significativo l’aggettivo “innocente”, usato da Giuda quando confessò il suo peccato:
“Ho tradito sangue innocente”.
Perché dimostra che neppure al termine della tragedia Giuda arrivò a chiamare Cristo col nome
di Signore, di Messia, di Figlio di Dio.
Io penso che il Signore avesse chiesto a Giuda: “E tu chi dici che Io sia?”.
Giuda non avrebbe mai risposto come rispose Pietro, ispirato dal Padre:
“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”.
Se Giuda avesse avuto la fragilità di Pietro, ma anche la vibrante fede di lui, avrebbe capito che neppure
il suicidio pacifica, come pacifica il perdono di Dio; e sarebbe tornato, come tornò Pietro, in seno ai dodici.
Giuda morì disperato!
Non aveva capito che il perdono di Cristo era il perdono di Dio, non aveva accolto il Dio della misericordia.
Eppure, al momento dell’arresto, Gesù lo aveva ancora chiamato “amico”; non per patetica bontà,
ma per fargli capire che, nonostante il tradimento consumato, il traditore era ancora in tempo per
approfittare di un Dio “amico”, per approfittare di un Dio del perdono; Gesù volle invitare
Giuda a varcare in extremis la soglia che dal “Dio dell’ira”, immette al “Dio dell’amore”.
Ma Giuda non accolse neppure quell’ultimo invito, perché non aveva accolto la rivelazione di Cristo,
non aveva accolto Cristo.
La colpa più grave di Giuda, è quella che nell’ultima Cena, Gesù stesso annunciò il tradimento:
“Colui che mangia con Me, ha levato contro di Me il suo calcagno.
Ve lo dico fin d’ora prima che accada, perché quando sarà avvenuto crediate che io sono.
In verità in verità vi dico……chi accoglie Me, accoglie Colui che Mi ha mandato”.
Non credo che ci sia un giudizio più giusto di questo giudizio del Signore sul peccato di Giuda;
Giuda non ha accolto Gesù, perché non era del Padre.
Quale zona buia aveva quest’uomo dentro di se?
Quale ombra, quale tenebra, ancora prima del tradimento, gli impediva di “avere parte” con
il Padre e quindi con il Figlio?
Solo Dio ha visto in quel cuore.
C’è una domanda che spesso mi sento rivolgere: “Si sarà salvato Giuda o sarà stato condannato in eterno?”.
È una domanda che mi pare una tentazione, la tentazione di togliere a Dio i suoi veli, i suoi misteri.
Noi sappiamo che la giustizia di Dio è misericordiosa e, che la sua misericordia è giusta,
ma non sappiamo discernere il punto esatto in cui la giustizia divina si salda alla misericordia divina.
Non affanniamoci stoltamente a risolvere gli enigmi divini; commetteremmo il peccato di Giuda,
quello di considerare Dio come un semplice uomo, senza mistero.
Chi non sa godere del mistero di Dio, è qualcuno che sta già perdendo la fede;
e nel Getsemani noi dobbiamo andare invece per rinsaldare la nostra fede!
Dobbiamo essere orgogliosi della nostra religione “rivelata da Cristo”.
Dobbiamo essere entusiasti e grati per la fede che ci è stata donata;
la fede nella misericordia che ci salva dalla disperazione;
la fede nel perdono che ci addolcisce nell’umiltà;
la fede nella vita eterna che ridimensiona i drammi della vita presente;
la fede in Colui che ha detto di Se stesso: “Io sono il Salvatore”.











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