sabato 31 marzo 2012

Il Vangelo della Domenica 1 Aprile 2012

Il Vangelo della Domenica delle Palme.
Dal Vangelo secondo Marco (15,1-39) anno B.
Al mattino i sommi sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio,
dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo condussero e lo
consegnarono a Pilato.
Allora Pilato prese a interrogarlo: «Sei tu il re dei Giudei?».
Ed egli rispose: «Tu lo dici».
I sommi sacerdoti frattanto gli muovevano molte accuse.
Pilato lo interrogò di nuovo: «Non rispondi nulla?
Vedi di quante cose ti accusano!».
Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato.
Per la festa egli era solito rilasciare un carcerato a loro richiesta.
Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli
che nel tumulto avevano commesso un omicidio.
La folla, accorsa, cominciò a chiedere ciò che sempre egli le concedeva.
Allora Pilato rispose loro: «Volete che vi rilasci il re dei Giudei?».
Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
Ma i sommi sacerdoti sobillarono la folla perché egli rilasciasse loro piuttosto Barabba.
Pilato replicò: «Che farò dunque di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!».
Ma Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Allora essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e,
dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio,
e convocarono tutta la coorte.
Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine,
gliela misero sul capo.
Cominciarono poi a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e,
piegando le ginocchia, si prostravano a lui.
Dopo averlo schernito, lo spogliarono della porpora e gli rimisero le sue vesti,
poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna,
padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce.
Condussero dunque Gesù al luogo del Gòlgota, che significa luogo del cranio,
e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.
Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere.
Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
E l'iscrizione con il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra.
I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano:
«Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni,
salva te stesso scendendo dalla croce!».
Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano:
«Ha salvato altri, non può salvare se stesso!
Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra,
fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Ecco, chiama Elia!».
Uno corse a inzuppare di aceto una spugna e, postala su una canna, gli dava da bere, dicendo:
«Aspettate, vediamo se viene Elia a toglierlo dalla croce».
Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, dall'alto in basso.
Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo,
disse: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!».
C'erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano,
tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di ioses,
e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea,
e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato,
Giuseppe d'Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio,
andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione,
lo interrogò se fosse morto da tempo.
Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo,
lo depose in un sepolcro scavato nella roccia.
Poi fece rotolare un masso contro l'entrata del sepolcro.
Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.
Parola del Signore.

Il deserto, ormai, volge al termine.
Abbiamo seguito il Rabbì nei quaranta giorni della Quaresima, cercando di convertire il nostro cuore,
sforzandoci di cambiare l’immagine mediamente orribile di Dio che portiamo nel cuore.
Vorremmo un Messia muscoloso e trionfante.
Gesù è un Messia mite e mediocre.
Abbiamo idea che la fede sia doverosa ma mortalmente noiosa.
Gesù ci parla dell’immensa bellezza di Dio.
Ci rivolgiamo a Dio come quando contrattiamo un favore.
Gesù ribalta i banchetti dei nostri mercati per svelarci il volto di un Padre che sa di che cosa hanno
bisogno i propri figli.
A volte pensiamo che Dio sia misterioso e incomprensibile, che ci mandi delle prove nella vita.
Gesù dice che l’unico desiderio di Dio è la mia salvezza.
Ci avviciniamo alla croce con superficialità; Gesù morirà in croce, Dio nudo e consegnato,
per svelare in maniera inequivocabile il vero volto di Dio.
Siamo pronti ormai, alla fine di questo percorso, a sederci e guardare lo scandaloso evento della croce.
E scandalizzati e inorriditi, siamo chiamati a seguire il Maestro nel suo dono d’amore. L’ultimo, il più grande.
La settimana che oggi iniziamo, così grande, così importante da essere chiamata “santa”, è il gioiello dell’anno liturgico, ma noi cristiani preferiamo altre feste meno impegnative, più melense, piene di finto buonismo.
Qui no. Un uomo in croce non suscita sentimenti di bontà.
Anzi; se ne parla poco e male di questo Dio che sale sulla croce e muore.
Rimane difficile da capire un mistero di una tomba vuota e del significato profondo della parola “risurrezione”.
Così è; la Chiesa si ferma stupita a meditare sulla misura dell’amore di Dio.
Normalmente l’hanno liturgico sintetizza la storia della salvezza in poco tempo;
in dodici mesi ripercorriamo la vita di Gesù.
In questa settimana santa, invece, ci si ferma, giorno per giorno, ora per ora, e in quel momento
cruciale per la storia dell’umanità, ci sediamo, spettatori, ad ammirare il volto di Dio. Fermi tutti!
Dio si prepara a morire, Cristo celebra la sua presenza nell’ultima Pasqua,
la nuova, viene arrestato, condannato, ucciso, sepolto, poi vivo.
In questa preziosa settimana, qualunque cosa faremo, in qualsiasi posto saremo, potremo fermarci,
socchiudere gli occhi e pensare a Cristo, ai suoi sentimenti, alla sua angoscia, alla sua bruciante passione,
al suo desiderio.
Ora per ora assisteremo, con gli occhi della fede, allo spettacolo di un Dio che muore per amore.
E questa settimana inizia oggi, Domenica delle Palme, nella gioia dello sventolio dei ramoscelli d’ulivo
per l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, nella gioia di incontrare Dio diciamo noi.
Ironia dell’incoerenza umana; le stesse voci, le stesse braccia, non più con le palme verso il cielo,
ma con i pugni serrati, trasformeranno la loro gioia per il Messia, figlio di David,
in un’invocazione terrificante, in un’agghiacciante sete di morte: “Crocifiggilo”.
Uomo sciocco, come sciocchi e tardi nel credere siamo noi,
ancora inconsapevoli del tesoro che abbiamo tra le mani,
così disposti anche noi a trasformare la nostra preghiera
di benedizione in invocazione di morte!
Eppure da quella croce pende il destino dell’uomo, con quel sangue è firmato il
patto dell’Amicizia eterna di Dio, in quel pane è conservato il Cuore di Colui che desidera
ardentemente mangiare la Pasqua con noi.
Ci ritroviamo in questo racconto? Ci siamo? E dove?
Forse quest’anno ci sentiamo un po’ come gli apostoli paurosi e
sconcertati, o come Pilato, ossessionato dal potere, o ci ritroviamo
nella trama intrigante e sconclusionata di Giuda, o nella sofferenza
cruenta del Cireneo che porta la croce, o nel desiderio di salvezza
del ladro o, Dio non voglia, ci ritroviamo nell’indifferenza di quei pii ebrei che, entrando in città,
affrettando il passo per l’imminente temporale, gettarono uno sguardo di disprezzo verso
gli ennesimi condannati a morte, rifiuto della società, che venivano esemplarmente puniti.
Tra questi condannati, Dio moriva.
Su quella croce si consumava la follia di un uomo che inchioda Dio perché in Lui vede un concorrente,
non un compagno; la fragilità dell’essere umano, che rifiuta un Dio così arrendevole, è ormai manifesta.
Che razza di re, amici, che razza di Dio ci siamo scelti!
Un re da burla che entra a Gerusalemme cavalcando un ciuchino e non un cavallo bianco come
le belle storie, un re oltraggiato e preso in giro da annoiati soldati romani, un re che suscita la
compassione e il disprezzo dell’irrequieto governatore Pilato.
Che razza di re, senza armata, senza potere, senza rabbia, senza delirio di onnipotenza.
Dio ha scelto di stare dalla parte degli sconfitti, dei dimenticati,
re—certo—ma dei perdenti e re senza riscatto, re senza trionfi,
re senza improbabili finali da commedia americana.
Un re nudo, appeso a una croce, crudele trono, cinto da una corona di spine, un re talmente
sconvolto da avere necessità di un cartello che lo identifichi, che lo renda riconoscibile,
almeno dalle persone che l’anno amato.
Questa è la non festa che celebriamo, che abbandona i trionfalismi per lasciare
spazio alla meditazione, allo stupore.
Questo è il nostro re, discepoli del Nazareno.
Lo vogliamo davvero un Dio così?
Un Dio che rischia, un Dio che—per amore—accetta di farsi spazzare via dall’odio e dalla violenza?
Lo vogliamo davvero un Dio che rischia tutto, anche di essere per sempre dimenticato,
pur di mostrare il suo volto?
In Dio che accetta di restare nudo, cioè leggibile, incontrabile, osteso, palese, evidente perché
ogni uomo la smetta di costruirsi improbabili devozioni, scure visioni di Dio?
Questo è il nostro Dio, un Dio amante, un Dio ferito, un Dio che fa dell’amore l’unica misura,
l’ultima ragione, la sola speranza.
L’augurio che mi faccio e che vi faccio è di identificarci—un poco almeno—in quel centurione straordinario,
di cui la storia ha taciuto il nome, che davanti al modo di morire di Gesù, di fronte al dono di sé sino alla fine,
rimane stupito, turbato, scosso fino nell’intimo e riconosce in Lui il Figlio di Dio.
Ecco la fede, la grande fede, che può sgorgare nel cuore di ciascuno di noi; davanti all’uomo crocifisso,
davanti alla sconfitta più assurda, davanti alla delusione di un sogno massacrato,
riconoscere la potenza del Dio immortale.
Allora potremo cantare, con la liturgia del venerdì santo: “Dio santo, Dio forte, Dio immortale,
abbi pietà di noi!”.
Santa Domenica delle Palme a tutti voi amici da Fausto.

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